A velocità sostenuta il treno trasportava centinaia di pendolari fuori dalla capitale.
Taluni erano incollati ai loro computer portatili, altri leggevano, altri dormivano, molti parlavano al telefono.
Antonio era assorto nei suoi pensieri, come troppe volte in quell’orribile autunno. Si soffermò a riflettere sulla storia d’amore appena conclusa con Elena. Troppo triste, troppo duro, troppo violento il loro litigio e la decisione di interrompere dopo tre anni quella storia, uno strano legame il loro. Eros e Thanatos: amore e morte, tra due persone che troppo poco, tranne il loro amore, avevano in comune. Loro due, uno strano innesto tra un cactus e una rosa che, inspiegabilmente, per tre anni erano cresciuti l’uno dentro l’altra fondendosi e distanziandosi, sviluppandosi in modo diverso, con velocità diverse, con vita propria. L’una aveva bisogno di acqua, irrorazioni e cure, l’altro di essere lasciato al sole senza l’intervento del giardiniere. Ma entrambi avevano spine corte, coriacee e aguzze, con le quali si avvolgevano, tenendosi allo stesso tempo a debita distanza.
Ora che tutto questo era finito si sentiva tradito, ingannato. Pensava che quei tre anni fossero stati una prolungata menzogna.
In quei giorni cercava di tenersi impegnato con il suo lavoro, con il trasloco della madre, con qualsiasi occupazione anche materiale: il fatto che uno ha degli obblighi, che deve organizzare qualcosa fa sì che le emozioni vengano messe da parte, congelate. La necessità di essere pratici impedisce di essere travolti da quel che si prova.
D’improvviso squillò il cellulare facendolo trasalire proprio quando, con fatica, era riuscito a scacciare i cattivi pensieri e a concentrarsi su qualcos’altro ed era immerso nella lettura di un diario di viaggio sul Sudest Asiatico.
Dall’altra parte una voce di ragazza giovane, allegra, con un marcato accento del Nord. «Dove ti trovi? Sei in treno? Dove sei diretto? ... e che ci fai a Firenze?» «Io sono in viaggio come sempre, sono diretta a Trento». Dopo pochi istanti Antonio si chiese chi potesse essere quella ragazza che neppure era a conoscenza delle sue origini e del fatto che in Toscana Antonio, avvocato a Roma, avesse la famiglia e la maggior parte degli amici. «Sei davvero sicura di conoscermi?» Domandò a quel punto. La comunicazione si interruppe.
Pling “Marcelo sono Eva, anzi Evelyn di Torino ... Ti sei dimenticato di me? ... Non mi riconosci più” Questo il testo del sms che Antonio leggeva sul cellulare.
Ok, un semplice errore di persona. Capita. Stava per cancellare quel messaggio, ma qualcosa lo trattenne dal farlo. Istintivamente non schiacciò il tasto “C”. Guardò la copertina arancione del libro poggiato sul sedile accanto. “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani, questo il titolo.
Nelle pagine appena lette si parlava di filosofia orientale, del fatto che, per quelle popolazioni, tanto contasse il destino, il karma. Si diceva, ancora, delle influenze positive e negativi degli spiriti, dei fantasmi: i pii in lingua thailandese. Come un fatto in realtà non capitasse mai per caso, ma stava alla capacità di ciascuno di saperne interpretare il senso. Per la prima volta Antonio non volle dare ascolto alla logica occidentale. «... il caso non esiste. Non esiste il caso» Ripeté mentalmente a sé stesso. Che allora quella telefonata fatta sul Roma-Milano delle 18:00 avesse davvero il potere di influenzare la propria vita, gli eventi? Che potesse davvero modificare, come nella celebre teoria del caos, l’ordine delle cose? Il battito d’ali di una farfalla a New York provocherà un temporale a Tokyo?
Rispose al messaggio. “Evelyn, è un vero piacere conoscerti, ma non sono Marcelo, mi chiamo Antonio”.
Fu un susseguirsi di messaggi: “Marcelo, ma mi prendi in giro?” “Ho parlato al telefono con Marcelo fino a tre giorni fa e, sono sicura, questo è il suo numero. Ce l’ho in rubrica”. “Ma chi è Marcelo?” – chiese Antonio. “Marcelo Mastroianni. E’ un amico d.j. italo-angentino” rispose Evelyn. “Da quanto tempo hai questo numero di telefono Antonio?”. Antonio scrisse allora ad Evelyn del libro che aveva ispirato quella decisione di andare avanti ... di flirtare ... di giocare a quello strano gioco. Evelyn domandò quale fosse esattamente il titolo del libro.
Il corteggiamento si fece più serrato. Stavolta Antonio compose il numero di Evelyn. Voleva ascoltare nuovamente quella voce briosa, quell’accento piemontese che sembrava di Torino. Il treno arrivò alla stazione di Firenze. Adesso non poteva perdere tempo, doveva pensare a scendere.
Qualcuno era venuto a prenderlo.
Dal marciapiede del binario Antonio però fece partire la chiamata: «Evelyn – disse - hai capito come si intitola il libro di cui ti parlavo nel mio messaggio?» «... e che cosa ci sei andata a fare a Trento?» «Sì, adesso mi è chiaro – rispose Lei – non credo di avere letto ancora nulla di Terzani. A Trento sono per lavoro, il mio lavoro mi porta molto in giro... ma ti spiace richiamarmi tra dieci minuti?»
Antonio però non richiamò quella sera. Trascorse la serata a cena con un amico e due ragazze in un ristorantino del centro, buon vino e il viso di una bella donna era quello che ci voleva per scacciare le ombre scure del passato.
Il giorno dopo trovò un messaggio sul cellulare. “Se vuoi, adesso puoi chiamare”. Antonio non prese neppure il tempo per riflettere, schiacciò il tasto verde e partì la richiamata.
La curiosità di sapere qualcosa in più di Evelyn era grande. Ventisei anni, capelli castani chiari, carnagione scura, un metro e sessantacinque per quarantotto chili, si era descritta così. «Mi prendono spesso per brasiliana» - gli disse al telefono. Alla domanda su cosa facesse nella vita Evelyn rispose: «Faccio vari lavori, sono arredatrice, indossatrice di biancheria intima e faccio la valletta per una tv locale.» «Poi - esitò un istante - due volte al mese ho anche un’altra attività ... faccio la spogliarellista. Sono venuta a Trento per questo motivo, ma ho litigato con il titolare del night dove mi dovevo esibire».
Uno scherzo o la verità? Senz’altro una mitomane? ... e poi di quante ore erano fatte le sue giornate per poter fare tutto quello? Ma che importanza ha - pensò Antonio - che menta pure se si diverte. «Antonio ti chiamo dopo, devo andare alla stazione, d’accordo?» si inseriva, a quel punto, Evelyn.
Antonio fece alcune telefonate. Quella sera ci sarebbe stata una festa a Roma in un palazzo patrizio del centro storico. Voleva ubriacarsi di gente e non solo ... e non poteva mancare.
Il cellulare squillò. Era il numero di Evelyn. «Sono alla stazione ... ma tu che fai questa sera?» Antonio rispose: «tornerò a Roma per una festa». «Be’ allora niente, volevo farti una proposta». Antonio intuì qualcosa. «Dimmi, dimmi pure. Che cosa avevi in mente?».
«Pensavo che ci saremmo potuti vedere a metà strada. Ma visto che devi andare a Roma...»
«Ma, a metà strada dove? – chiese lui - Che idea ti eri fatta?» «Potremmo vederci a Bologna. Ma devi dirmelo adesso. Faccio il biglietto Antonio?»
Antonio cominciò allora a passeggiare convulsamente avanti e indietro nel giardino dove si trovava, non stava nella pelle. Non credeva alla sue orecchie: un appuntamento al buio con una spogliarellista a Bologna. In meno di un’ora di macchina sarebbe stato lì. Tutto sommato che aveva da perdere? ... la festa romana? Que se joda la maldita fiesta! - Pensò.
«Ok. Fai il biglietto Evelyn. Verrò. Ci vediamo alla stazione».
Evelyn acquistò il biglietto per il treno che arrivava a Bologna alle 18:23. Pling “Ci vediamo alla stazione di Bologna, Antonio non darmi buca, ti prego ... non lasciarmi lì da sola …!”
Finalmente, dopo l’ennesimo giro dell’isolato, Antonio riconobbe Evelyn con quel buffo basco inglese. Tecnicamente l’incontro era avvenuto con successo. Ora l’avrebbe vista.
L’emozione era fortissima. Lo sportello si aprì e lei ... lei saltò su. Poggiò il bagaglio all’interno dell’auto e si sedette sul sedile anteriore. Era davvero carina. Con i capelli lisci lunghi e gli occhi scuri con le ciglia sapientemente allungate da un mascara nero. Non aveva davvero l’aspetto della femme fatale, donna bella e dannata. Al contrario, lo sguardo - tutt’altro che provocante – era a tratti sfuggente. Avrebbe potuto essere una studentessa di architettura. Leggermente ricercata nel vestire, ma senza eccedere. Portava un paio di pantaloni neri molto attillati di un tessuto un po’ brillante, una giacchina a due bottoni che le stringeva la vita e metteva in risalto il seno generoso. Le scarpe avevano molto tacco, ma per il resto, tutto nella norma.
Durante la prima mezzora si avvertiva un pizzico di tensione tra i due. La sorpresa, non essersi mai visti prima d’allora, chi sa? Successivamente, dopo aver parcheggiato la macchina, iniziavano a passeggiare sotto i portici di “Bologna la dotta” e il nervosismo iniziale si andava attutendo. Via Indipendenza e via, verso le stradine del centro storico alla ricerca di un posticino dove farsi un drink. La scelta ricadeva sul Plasma.
Bastavano un paio di Vodka Sauer alla maracuja e i due sembravano totalmente a loro agio: sabato sera, un ragazzo e una ragazza che si conoscono in un bar e che iniziano ad esplorare i rispettivi territori.
Evelyn cominciò a parlare della sua vita, della sua casa vicino Torino, dei suoi due fratelli che, invece, vivevano a Vicenza. Dei genitori separati. Della sua infanzia difficile e di come, ad appena tredici anni, era scappata di casa. Incompatibilità di carattere con la madre, disse lei, e ... desiderio di stare insieme al suo fidanzatino di allora. Avevano vissuto insieme a Palermo per un anno. Antonio ascoltava impassibile. Non faceva una piega per non sembrare bacchettone. Ovviamente però, ad un uomo come lui, nato in una famiglia aristocratica e abituato, sin da ragazzo, al benessere economico e alla stabilità affettiva, il racconto di quella vita fuori dagli schemi, sembrava inverosimile, frutto della fantasia, un tantino morbosa, di una ragazzina annoiata. Ascoltava, con attenzione ed ogni tanto annuiva. D’un tratto pensò di aver capito male, Evelyn parlando del fratello minore (che, neppure a farlo apposta, era vissuto in una casa famiglia) criticava il suo modo di fare fanciullesco che poco si addiceva, a suo dire, ad un ragazzo di diciotto anni. Fortunato e viziato dalla vita il fratello (strano concetto di fortuna! Pensò Antonio), mentre lei a quattordici anni aveva già partorito due figli. Irriconoscente per l’ospitalità in casa della sorella che lo aveva mantenuto chiedendogli solo di badare a Giulio, suo figlio di cinque anni. Mentre raccontava, Evelyn, aprì il cellulare e mostrò ad Antonio la foto di un bambinetto biondo. La somiglianza del bimbo con Evelyn, in effetti, era notevole. Il racconto, almeno in questa parte, assunse toni più realistici... e quel lavoro da spogliarellista?? Evelyn raccontò della sera precedente. Del litigio sul cachet con il proprietario del night a Trento. «Sarei dovuta restare due giorni. E’ proprio un caso che abbia il sabato libero» - commentava. Antonio aggrottò le sopracciglia, e distolse, per un attimo, lo sguardo da Evelyn, facendosi perplesso. Una spogliarellista di un metro e sessantacinque - pensò - in un paese come il nostro pieno di stangone dell’Est. Mah...? Strano davvero. Ma con i misteri si era solo all’inizio.
Tornato in sé, Antonio disse ad Evelyn che non voleva rovinare quel loro bell’incontro con una bugia. In un’occasione non era stato sincero e gli dispiaceva che ci fosse quella piccola macchia. Adesso voleva confessarla ad Evelyn. «L’indovino – disse, alludendo al libro di Terzani – si risentirebbe sapendo che ti ho mentito». «In treno ti ho detto che ho trentadue anni, invece ne ho già compiuti trentotto». Infondo era ben poca cosa rispetto a tutte le dubbie stranezze che Evelyn gli aveva detto da quando si erano incontrati due ore prima. Evelyn, che a quella notizia restò impassibile, di tutta risposta, disse ad Antonio che anche lei gli aveva detto una bugia, ma che questo fosse ancora un segreto che non gli avrebbe svelato subito, ma con il tempo. Si trattava di qualcosa che neppure le persone più vicine a lei, neppure taluni amici, sapevano. «Me lo dirai?» chiese Antonio. «Sì, te lo dirò, ma non adesso. Verrà con il tempo». «Ma che cosa riguarda?» disse Antonio che, per un attimo, pensò che quel loro incontro potesse essere tutto un bluff, il tiro mancino di un amico, uno scherzo organizzato da un qualche burlone magari a fin di bene, per farlo distrarre un po’, per fargli dimenticare le menzogne di Elena e la delusione per il suo progetto di vita infranto. «Riguarda la mia vita. Quello che faccio io» rispose Evelyn. Menomale, almeno il loro incontro era autentico.
L’aperitivo era durato quasi due ore e Antonio si domandava come e dove avrebbero passato la notte. Era un tema spinoso, ma – prima o poi – avrebbe dovuto affrontarlo. Chiese ad Evelyn che cosa avesse in mente. Se aveva guardato gli orari dei treni per ... «Per Torino l’ultimo parte a mezzanotte» disse lei. Un po’ tardi, considerata la distanza da Bologna, e un po’ presto, tenuto conto che ancora dovevano cenare. «Hai preso in considerazione l’idea di dormire a Bologna?» chiese lui. «Ci ho pensato, ma dove? Non posso andare in Hotel! Posso solo dormire a casa di qualcuno. Conosci qualcuno a Bologna Antonio?».
Da bravo avvocato Antonio cominciò mentalmente a riepilogare, a riassumere le informazioni che aveva raccolto in quelle poche ore da Evelyn. Vediamo: due figli a quattordici anni (gemelli?!), uno a ventuno. Due convivenze o forze tre. Pensando che il piccolo Giulio non era figlio dell’attuale compagno. E poi soggiorni lunghi a Palermo, Roma, Torino, Milano, Vicenza... e adesso questa storia dell’albergo. Perché mai una persona non può registrare la propria presenza in albergo. Perché ha commesso un reato. Perché è stato segnalato, schedato. Allora che cosa ha mai fatto questa ragazza: prostituzione, traffico di droga o armi, terrorismo? Tutto quello che gli stava capitando in quel giorno era davvero pazzesco! E lei, la dolce Evelyn.... dai suoi racconti sembrava davvero “La donna che visse due volte”. Quel film di Alfred Hitchcock con Kim Novak, nella parte di Judy, e James Stewart. Quante vite aveva vissuto quella bella ventiseienne torinese?
Era il momento di trovare una soluzione per il pernottamento. Antonio doveva pensare a qualcuno che vivesse a Bologna e che fosse in grado di ospitarli all’ultimo minuto. Gli venne in mente di avere un cugino in città. Forse poteva chiedere a lui. Provò a chiamarlo, seppure con un certo imbarazzo, visto che non si sentivano da un paio d’anni. Cercò di spiegargli la situazione omettendo la problematica relativa al hotel. Il cugino trovò plausibile la storia, ma non fu in grado di assicurargli ospitalità per la notte. Tutto da rifare.
Doveva farsi venire un’altra idea. Prima di chiudere però il cugino gli aveva suggerito di contattare Leonardo, un vecchio amico fiorentino proprietario di un agriturismo a Brisighella, sull’Appennino tosco-emiliano, a settanta chilometri da Bologna. Certo, c’era sempre il problema della registrazione di Evelyn, ma forse Leonardo, amico d’infanzia, avrebbe potuto chiudere un occhio. Telefonò a Leonardo e prenotò una camera. Risolto.
S’era fatta ora di cena. Evelyn e Antonio pensarono che dopo quell’aperitivo rinforzato al Plasma una pizza sarebbe andata più che bene. Il cameriere propose ai due di sedersi accanto ad una giovane coppia perché – essendo sabato - l’attesa si sarebbe prolungata. La cena trascorse allegramente. Col passare delle ore si era creata una certa intimità tra i due che si guardavano dritti negli occhi come due fidanzatini. Antonio si era lasciato andare un po’ di più e – in un paio di occasioni – aveva preso la mano di Evelyn tra le sue. Anche lei poi gli poggiò una mano su una coscia. Sembrava che fossero insieme da anni.... I ragazzi vicino a loro furono incuriositi da quella coppia così “innamorata” da quegli sguardi languidi. Il ragazzo, che probabilmente non aveva più di venticinque anni, con una scusa cercò di attaccare discorso. «Dal vostro accento mi pare che neppure voi siate di Bologna. Di dove siete? »
Antonio ed Evelyn si raccontarono. I due ragazzi erano calabresi, ma avevano entrambi frequentato l’università a Bologna. Lui adesso lavorava a Milano, lei aveva trovato un impiego in un’azienda di consulenza a Bologna. «... ma calabresi di dove?» - chiese Antonio. «Soverato, un cittadina balneare sullo Ionio» - risposero, quasi all’unisono, i due. Per un attimo Antonio si sentì tremare la terra sotto i piedi. Era la città di Elena. Il destino sembrava beffarsi del suo dolore. Un brivido gli percorse la schiena. Si sforzò di non mostrare quel turbamento, ma lo sguardo, improvvisamente velato, tradì quell’emozione. «Conosco Soverato – disse – ci sono stato spesso, anche di recente. Ho degli amici lì.» Non volle aggiungere altro. Si sentì stringere forte la mano. Evelyn, senza neppure sapere perché, si era fatta più vicino.
La ragazza di Soverato chiese allora ad Evelyn da quanto tempo stessero insieme. Fu comprensibilmente scioccata quanto conobbe tutta la storia e seppe da Evelyn che con Antonio si conoscevano telefonicamente da poco più di 24 ore e che si erano visti alla stazione quattro ore prima.
Evelyn, per essere più credibile, le mostrò il cellulare, dalla rubrica selezionò il nome di Marcelo e fece partire la telefonata. Dopo pochi istanti il telefono di Antonio cominciò a squillare.
«Visto? – disse – è quello che mi è capitato ieri sul treno. Ho chiamato il numero del mio amico ed ha risposto Antonio.»
Al di là della loro storia e di come questa lasciò il segno nei fidanzati di Soverato, era sconvolgente che Evelyn e Antonio fossero molto più coppia di quanto lo fossero i loro due giovani commensali. Sembrava una coppia più fresca e affiatata. La coppia di Soverato era invece stantia, vecchia, triste, priva di passione, «tutto si direbbe, tranne che siano poco più che ventenni» - commentò Evelyn.
Terminata la cena Antonio ed Evelyn tornarono alla macchina. Li aspettava un oretta di viaggio per raggiungere l’agriturismo di Leonardo. Non appena toccò il sedile Evelyn cadde addormentata, sembrava che non dormisse da giorni. Era meglio che si riposasse durante il tragitto. Pensò Antonio. Durante il tragitto Antonio non potè fare a meno di ripensare a tutto quanto. La telefonata fatta da Evelyn ad un amico con lo stesso numero del proprio cellulare (quel numero che lui aveva da almeno 7 anni). E a chi? A Marcelo Mastroianni che, fatta salva la doppia l del nome di battesimo, era anche un amico palermitano di Elena [coincidenza piuttosto bizzarra: ma possibile tutte le famiglie Mastroianni abbiano l’acume di battezzare i loro figlioletti Marcello in onore del divo felliniano de “La dolce vita”?…]. E ancora la coppia di Soverato in pizzeria a Bologna (quanti abitanti fa Soverato 10.000-20.000? In un paese di 56 milioni). E poi la questione della registrazione in albergo. Possibile? Una macchinazione? Elena lo stava controllando? E perché? Si erano ormai lasciati? La responsabilità di quella fine così tumultuosa della loro storia era sua. A che scopo quindi quel controllo? Forse allora era tutto autentico. … ma possibile che una ragazza di ventisei anni fosse adesso addormentata nella sua macchina se fino a poche ore prima neppure sapeva della sua esistenza? Una ragazza “normale” non avrebbe dovuto essere più cauta? Al giorno d’oggi non sai mai cosa ti può capitare. Doveva calmarsi. Doveva viversi quello che gli stava accadendo con serenità, senza paure, senza farsi troppe domande. Così.
Giunti in camera. Evelyn chiese ad Antonio qualcosa per dormire. Aveva lasciato tutto nella valigia in macchina. Antonio tirò fuori dal proprio bagaglio una vecchissima tuta blu con la scritta “USA” sulla maglia. Con quella avrebbe voluto fare jogging a Firenze se tutta quella follia non fosse avvenuta, se l’indovino non avesse mutato il corso delle cose. Riflettendoci pensò che la vita fosse come il letto di un fiume con gli argini più o meno delineati, ma che talvolta l’acqua impetuosa potesse cambiare il corso del fiume se, lungo il letto già scavato, trova degli ostacoli che non riesce a trascinare con sé. Ed è proprio ciò che era avvenuto la sera precedente.
Evelyn, arrossi, gli chiese di voltarsi, e si tolse i vestiti. Come era possibile, penso Antonio, che una spogliarellista, abbia questa forma di pudore? Che non volesse cambiarsi davanti a lui? Non seppe resistere alla curiosità, glielo chiese.
Lei rispose che spogliarsi davanti ad un pubblico era diverso, in quel momento uno indossa una maschera e con quella addosso si potrebbe fare di tutto. Un po’ come recitare: «Impersonare un personaggio non significa diventare un’altra» - disse. Forse era tutto ancora più complesso, pensò Antonio, ogni giorno ciascuno indossa una maschera prima di uscire di casa e tuffarsi in quella che gli psicologi definiscono la “vita reale”, ma che è proprio il suo contrario. Quella faccia conservata in un vaso vicino alla porta. Il riferimento era a Eleonor Rigby, la canzone dei Beatles che adesso gli suonava in testa. Pensò che Evelyn insieme ai vestiti si fosse tolta quella maschera. Ora la spogliarellista part-time non ostentava la sua nudità, ma la scritta USA in bianco su un morbido sfondo blu.
Antonio pensò nuovamente a tutte quelle storie che Evelyn aveva raccontato, a tutti quei lavori poco raccomandabili, a quei 26 anni consumati in fretta. Poi la guardò. Guardò la sua pelle: così liscia e compatta che quasi ci potevi pattinare, gli occhi neri, lo sguardo da ragazzina e le disse:
«Ciò che sei mi distoglie da ciò che mi dici.
Lanci parole veloci inghirlandate di risa
e mi inviti ad andare dove mi vorrebbero condurre.
Non ti do retta, non le seguo.
Sto guardando le labbra da dove sono nate».
Era una poesia di Pedro Salinas e descriveva perfettamente il suo stato d’animo: gli premeva chi lei fosse e non quanto gli avesse detto. Fecero l’amore, ma non fu il sesso su cui Antonio aveva fantasticato il pomeriggio precedente quando era partito alla volta di Bologna per incontrare “Evelyn la spogliarellista”. Erano entrambi stanchi, con la testa annebbiata dai fumi dell’alcool. Non ci fu passione. Fu soprattutto tenerezza. Una nottata senza sonno fatta di baci, carezze e ... in questo preciso ordine.
Antonio aveva Elena ancora dentro di sé, ma, per incanto, in quell’istante con Evelyn accadde qualcosa: le loro labbra si baciarono senza dover chieder perdono a nulla, a nessuno. E non importava più chi davvero Evelyn fosse, chi fosse stata, chi o che cosa l’avesse portata lì, da lui, quel giorno. Antonio non voleva volgere il capo e guardare altrove, lontano. La vita era lì, in quel preciso istante. Il 28 ottobre 2007 ciò che importava era che loro fossero insieme in quel agriturismo sull’Appennino tosco-emiliano. Tutto il resto? ... Non c’era nessun resto!
Antonio non volle addormentarsi. Il sole indifferente dell’alba avrebbe squarciato la notte e portato via, insieme a questa, Evelyn: il sogno. Voleva prolungare quel momento. Godere di ogni residuo minuto di oscurità.
Il mattino seguente. L’incantesimo era rotto. Presero la macchina e tornarono a Bologna. Evelyn era nervosa e voleva raggiungere rapidamente la stazione e far ritorno a casa. Antonio era ripiombato in quella lucida diffidenza tipicamente fiorentina e adesso si domandava se davvero quello che era capitato il giorno prima fosse un caso o fosse tutto architettato. «Possibile?» si domandò. «Se mi è successo deve essere possibile» si rispose.
Accompagnò Evelyn al binario. C’era nervosismo nell’aria. Nessuno dei due sapeva cosa dire. «Ciao Evelyn. Fa buon viaggio e sta bene» Disse lui. «E’ stata una bella avventura, ciao Antonio» - rispose Evelyn. Non ci fu nessun arrivederci.
Partito il treno, Antonio tornò sui suoi passi lungo il binario 11.
Ritornò mentalmente a tutta la serata precedente. A volte il tempo ha un fluire differente - pensò. Quelle quattordici ore trascorse insieme ad Evelyn erano state intense come quattordici giorni anche se tutto era terminato in quattordici secondi. Si sentì più sereno. Per un istante si fermo lungo il marciapiede del binario. Chiuse gli occhi e respirò profondamente l’aria fredda del mattino. Il futuro avrebbe avuto ancora qualcosa da riservargli? Sì, Evelyn non era che un presagio. La vita gli avrebbe regalato nuovi colori, sapori e odori. Lei era venuta da lui per dirgli questo, ne fu improvvisamente certo. Riaprì gli occhi e si diresse, a passo svelto, verso la biglietteria della stazione. Era il momento di prendere un nuovo treno.
Taluni erano incollati ai loro computer portatili, altri leggevano, altri dormivano, molti parlavano al telefono.
Antonio era assorto nei suoi pensieri, come troppe volte in quell’orribile autunno. Si soffermò a riflettere sulla storia d’amore appena conclusa con Elena. Troppo triste, troppo duro, troppo violento il loro litigio e la decisione di interrompere dopo tre anni quella storia, uno strano legame il loro. Eros e Thanatos: amore e morte, tra due persone che troppo poco, tranne il loro amore, avevano in comune. Loro due, uno strano innesto tra un cactus e una rosa che, inspiegabilmente, per tre anni erano cresciuti l’uno dentro l’altra fondendosi e distanziandosi, sviluppandosi in modo diverso, con velocità diverse, con vita propria. L’una aveva bisogno di acqua, irrorazioni e cure, l’altro di essere lasciato al sole senza l’intervento del giardiniere. Ma entrambi avevano spine corte, coriacee e aguzze, con le quali si avvolgevano, tenendosi allo stesso tempo a debita distanza.
Ora che tutto questo era finito si sentiva tradito, ingannato. Pensava che quei tre anni fossero stati una prolungata menzogna.
In quei giorni cercava di tenersi impegnato con il suo lavoro, con il trasloco della madre, con qualsiasi occupazione anche materiale: il fatto che uno ha degli obblighi, che deve organizzare qualcosa fa sì che le emozioni vengano messe da parte, congelate. La necessità di essere pratici impedisce di essere travolti da quel che si prova.
D’improvviso squillò il cellulare facendolo trasalire proprio quando, con fatica, era riuscito a scacciare i cattivi pensieri e a concentrarsi su qualcos’altro ed era immerso nella lettura di un diario di viaggio sul Sudest Asiatico.
Dall’altra parte una voce di ragazza giovane, allegra, con un marcato accento del Nord. «Dove ti trovi? Sei in treno? Dove sei diretto? ... e che ci fai a Firenze?» «Io sono in viaggio come sempre, sono diretta a Trento». Dopo pochi istanti Antonio si chiese chi potesse essere quella ragazza che neppure era a conoscenza delle sue origini e del fatto che in Toscana Antonio, avvocato a Roma, avesse la famiglia e la maggior parte degli amici. «Sei davvero sicura di conoscermi?» Domandò a quel punto. La comunicazione si interruppe.
Pling “Marcelo sono Eva, anzi Evelyn di Torino ... Ti sei dimenticato di me? ... Non mi riconosci più” Questo il testo del sms che Antonio leggeva sul cellulare.
Ok, un semplice errore di persona. Capita. Stava per cancellare quel messaggio, ma qualcosa lo trattenne dal farlo. Istintivamente non schiacciò il tasto “C”. Guardò la copertina arancione del libro poggiato sul sedile accanto. “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani, questo il titolo.
Nelle pagine appena lette si parlava di filosofia orientale, del fatto che, per quelle popolazioni, tanto contasse il destino, il karma. Si diceva, ancora, delle influenze positive e negativi degli spiriti, dei fantasmi: i pii in lingua thailandese. Come un fatto in realtà non capitasse mai per caso, ma stava alla capacità di ciascuno di saperne interpretare il senso. Per la prima volta Antonio non volle dare ascolto alla logica occidentale. «... il caso non esiste. Non esiste il caso» Ripeté mentalmente a sé stesso. Che allora quella telefonata fatta sul Roma-Milano delle 18:00 avesse davvero il potere di influenzare la propria vita, gli eventi? Che potesse davvero modificare, come nella celebre teoria del caos, l’ordine delle cose? Il battito d’ali di una farfalla a New York provocherà un temporale a Tokyo?
Rispose al messaggio. “Evelyn, è un vero piacere conoscerti, ma non sono Marcelo, mi chiamo Antonio”.
Fu un susseguirsi di messaggi: “Marcelo, ma mi prendi in giro?” “Ho parlato al telefono con Marcelo fino a tre giorni fa e, sono sicura, questo è il suo numero. Ce l’ho in rubrica”. “Ma chi è Marcelo?” – chiese Antonio. “Marcelo Mastroianni. E’ un amico d.j. italo-angentino” rispose Evelyn. “Da quanto tempo hai questo numero di telefono Antonio?”. Antonio scrisse allora ad Evelyn del libro che aveva ispirato quella decisione di andare avanti ... di flirtare ... di giocare a quello strano gioco. Evelyn domandò quale fosse esattamente il titolo del libro.
Il corteggiamento si fece più serrato. Stavolta Antonio compose il numero di Evelyn. Voleva ascoltare nuovamente quella voce briosa, quell’accento piemontese che sembrava di Torino. Il treno arrivò alla stazione di Firenze. Adesso non poteva perdere tempo, doveva pensare a scendere.
Qualcuno era venuto a prenderlo.
Dal marciapiede del binario Antonio però fece partire la chiamata: «Evelyn – disse - hai capito come si intitola il libro di cui ti parlavo nel mio messaggio?» «... e che cosa ci sei andata a fare a Trento?» «Sì, adesso mi è chiaro – rispose Lei – non credo di avere letto ancora nulla di Terzani. A Trento sono per lavoro, il mio lavoro mi porta molto in giro... ma ti spiace richiamarmi tra dieci minuti?»
Antonio però non richiamò quella sera. Trascorse la serata a cena con un amico e due ragazze in un ristorantino del centro, buon vino e il viso di una bella donna era quello che ci voleva per scacciare le ombre scure del passato.
Il giorno dopo trovò un messaggio sul cellulare. “Se vuoi, adesso puoi chiamare”. Antonio non prese neppure il tempo per riflettere, schiacciò il tasto verde e partì la richiamata.
La curiosità di sapere qualcosa in più di Evelyn era grande. Ventisei anni, capelli castani chiari, carnagione scura, un metro e sessantacinque per quarantotto chili, si era descritta così. «Mi prendono spesso per brasiliana» - gli disse al telefono. Alla domanda su cosa facesse nella vita Evelyn rispose: «Faccio vari lavori, sono arredatrice, indossatrice di biancheria intima e faccio la valletta per una tv locale.» «Poi - esitò un istante - due volte al mese ho anche un’altra attività ... faccio la spogliarellista. Sono venuta a Trento per questo motivo, ma ho litigato con il titolare del night dove mi dovevo esibire».
Uno scherzo o la verità? Senz’altro una mitomane? ... e poi di quante ore erano fatte le sue giornate per poter fare tutto quello? Ma che importanza ha - pensò Antonio - che menta pure se si diverte. «Antonio ti chiamo dopo, devo andare alla stazione, d’accordo?» si inseriva, a quel punto, Evelyn.
Antonio fece alcune telefonate. Quella sera ci sarebbe stata una festa a Roma in un palazzo patrizio del centro storico. Voleva ubriacarsi di gente e non solo ... e non poteva mancare.
Il cellulare squillò. Era il numero di Evelyn. «Sono alla stazione ... ma tu che fai questa sera?» Antonio rispose: «tornerò a Roma per una festa». «Be’ allora niente, volevo farti una proposta». Antonio intuì qualcosa. «Dimmi, dimmi pure. Che cosa avevi in mente?».
«Pensavo che ci saremmo potuti vedere a metà strada. Ma visto che devi andare a Roma...»
«Ma, a metà strada dove? – chiese lui - Che idea ti eri fatta?» «Potremmo vederci a Bologna. Ma devi dirmelo adesso. Faccio il biglietto Antonio?»
Antonio cominciò allora a passeggiare convulsamente avanti e indietro nel giardino dove si trovava, non stava nella pelle. Non credeva alla sue orecchie: un appuntamento al buio con una spogliarellista a Bologna. In meno di un’ora di macchina sarebbe stato lì. Tutto sommato che aveva da perdere? ... la festa romana? Que se joda la maldita fiesta! - Pensò.
«Ok. Fai il biglietto Evelyn. Verrò. Ci vediamo alla stazione».
Evelyn acquistò il biglietto per il treno che arrivava a Bologna alle 18:23. Pling “Ci vediamo alla stazione di Bologna, Antonio non darmi buca, ti prego ... non lasciarmi lì da sola …!”
Finalmente, dopo l’ennesimo giro dell’isolato, Antonio riconobbe Evelyn con quel buffo basco inglese. Tecnicamente l’incontro era avvenuto con successo. Ora l’avrebbe vista.
L’emozione era fortissima. Lo sportello si aprì e lei ... lei saltò su. Poggiò il bagaglio all’interno dell’auto e si sedette sul sedile anteriore. Era davvero carina. Con i capelli lisci lunghi e gli occhi scuri con le ciglia sapientemente allungate da un mascara nero. Non aveva davvero l’aspetto della femme fatale, donna bella e dannata. Al contrario, lo sguardo - tutt’altro che provocante – era a tratti sfuggente. Avrebbe potuto essere una studentessa di architettura. Leggermente ricercata nel vestire, ma senza eccedere. Portava un paio di pantaloni neri molto attillati di un tessuto un po’ brillante, una giacchina a due bottoni che le stringeva la vita e metteva in risalto il seno generoso. Le scarpe avevano molto tacco, ma per il resto, tutto nella norma.
Durante la prima mezzora si avvertiva un pizzico di tensione tra i due. La sorpresa, non essersi mai visti prima d’allora, chi sa? Successivamente, dopo aver parcheggiato la macchina, iniziavano a passeggiare sotto i portici di “Bologna la dotta” e il nervosismo iniziale si andava attutendo. Via Indipendenza e via, verso le stradine del centro storico alla ricerca di un posticino dove farsi un drink. La scelta ricadeva sul Plasma.
Bastavano un paio di Vodka Sauer alla maracuja e i due sembravano totalmente a loro agio: sabato sera, un ragazzo e una ragazza che si conoscono in un bar e che iniziano ad esplorare i rispettivi territori.
Evelyn cominciò a parlare della sua vita, della sua casa vicino Torino, dei suoi due fratelli che, invece, vivevano a Vicenza. Dei genitori separati. Della sua infanzia difficile e di come, ad appena tredici anni, era scappata di casa. Incompatibilità di carattere con la madre, disse lei, e ... desiderio di stare insieme al suo fidanzatino di allora. Avevano vissuto insieme a Palermo per un anno. Antonio ascoltava impassibile. Non faceva una piega per non sembrare bacchettone. Ovviamente però, ad un uomo come lui, nato in una famiglia aristocratica e abituato, sin da ragazzo, al benessere economico e alla stabilità affettiva, il racconto di quella vita fuori dagli schemi, sembrava inverosimile, frutto della fantasia, un tantino morbosa, di una ragazzina annoiata. Ascoltava, con attenzione ed ogni tanto annuiva. D’un tratto pensò di aver capito male, Evelyn parlando del fratello minore (che, neppure a farlo apposta, era vissuto in una casa famiglia) criticava il suo modo di fare fanciullesco che poco si addiceva, a suo dire, ad un ragazzo di diciotto anni. Fortunato e viziato dalla vita il fratello (strano concetto di fortuna! Pensò Antonio), mentre lei a quattordici anni aveva già partorito due figli. Irriconoscente per l’ospitalità in casa della sorella che lo aveva mantenuto chiedendogli solo di badare a Giulio, suo figlio di cinque anni. Mentre raccontava, Evelyn, aprì il cellulare e mostrò ad Antonio la foto di un bambinetto biondo. La somiglianza del bimbo con Evelyn, in effetti, era notevole. Il racconto, almeno in questa parte, assunse toni più realistici... e quel lavoro da spogliarellista?? Evelyn raccontò della sera precedente. Del litigio sul cachet con il proprietario del night a Trento. «Sarei dovuta restare due giorni. E’ proprio un caso che abbia il sabato libero» - commentava. Antonio aggrottò le sopracciglia, e distolse, per un attimo, lo sguardo da Evelyn, facendosi perplesso. Una spogliarellista di un metro e sessantacinque - pensò - in un paese come il nostro pieno di stangone dell’Est. Mah...? Strano davvero. Ma con i misteri si era solo all’inizio.
Tornato in sé, Antonio disse ad Evelyn che non voleva rovinare quel loro bell’incontro con una bugia. In un’occasione non era stato sincero e gli dispiaceva che ci fosse quella piccola macchia. Adesso voleva confessarla ad Evelyn. «L’indovino – disse, alludendo al libro di Terzani – si risentirebbe sapendo che ti ho mentito». «In treno ti ho detto che ho trentadue anni, invece ne ho già compiuti trentotto». Infondo era ben poca cosa rispetto a tutte le dubbie stranezze che Evelyn gli aveva detto da quando si erano incontrati due ore prima. Evelyn, che a quella notizia restò impassibile, di tutta risposta, disse ad Antonio che anche lei gli aveva detto una bugia, ma che questo fosse ancora un segreto che non gli avrebbe svelato subito, ma con il tempo. Si trattava di qualcosa che neppure le persone più vicine a lei, neppure taluni amici, sapevano. «Me lo dirai?» chiese Antonio. «Sì, te lo dirò, ma non adesso. Verrà con il tempo». «Ma che cosa riguarda?» disse Antonio che, per un attimo, pensò che quel loro incontro potesse essere tutto un bluff, il tiro mancino di un amico, uno scherzo organizzato da un qualche burlone magari a fin di bene, per farlo distrarre un po’, per fargli dimenticare le menzogne di Elena e la delusione per il suo progetto di vita infranto. «Riguarda la mia vita. Quello che faccio io» rispose Evelyn. Menomale, almeno il loro incontro era autentico.
L’aperitivo era durato quasi due ore e Antonio si domandava come e dove avrebbero passato la notte. Era un tema spinoso, ma – prima o poi – avrebbe dovuto affrontarlo. Chiese ad Evelyn che cosa avesse in mente. Se aveva guardato gli orari dei treni per ... «Per Torino l’ultimo parte a mezzanotte» disse lei. Un po’ tardi, considerata la distanza da Bologna, e un po’ presto, tenuto conto che ancora dovevano cenare. «Hai preso in considerazione l’idea di dormire a Bologna?» chiese lui. «Ci ho pensato, ma dove? Non posso andare in Hotel! Posso solo dormire a casa di qualcuno. Conosci qualcuno a Bologna Antonio?».
Da bravo avvocato Antonio cominciò mentalmente a riepilogare, a riassumere le informazioni che aveva raccolto in quelle poche ore da Evelyn. Vediamo: due figli a quattordici anni (gemelli?!), uno a ventuno. Due convivenze o forze tre. Pensando che il piccolo Giulio non era figlio dell’attuale compagno. E poi soggiorni lunghi a Palermo, Roma, Torino, Milano, Vicenza... e adesso questa storia dell’albergo. Perché mai una persona non può registrare la propria presenza in albergo. Perché ha commesso un reato. Perché è stato segnalato, schedato. Allora che cosa ha mai fatto questa ragazza: prostituzione, traffico di droga o armi, terrorismo? Tutto quello che gli stava capitando in quel giorno era davvero pazzesco! E lei, la dolce Evelyn.... dai suoi racconti sembrava davvero “La donna che visse due volte”. Quel film di Alfred Hitchcock con Kim Novak, nella parte di Judy, e James Stewart. Quante vite aveva vissuto quella bella ventiseienne torinese?
Era il momento di trovare una soluzione per il pernottamento. Antonio doveva pensare a qualcuno che vivesse a Bologna e che fosse in grado di ospitarli all’ultimo minuto. Gli venne in mente di avere un cugino in città. Forse poteva chiedere a lui. Provò a chiamarlo, seppure con un certo imbarazzo, visto che non si sentivano da un paio d’anni. Cercò di spiegargli la situazione omettendo la problematica relativa al hotel. Il cugino trovò plausibile la storia, ma non fu in grado di assicurargli ospitalità per la notte. Tutto da rifare.
Doveva farsi venire un’altra idea. Prima di chiudere però il cugino gli aveva suggerito di contattare Leonardo, un vecchio amico fiorentino proprietario di un agriturismo a Brisighella, sull’Appennino tosco-emiliano, a settanta chilometri da Bologna. Certo, c’era sempre il problema della registrazione di Evelyn, ma forse Leonardo, amico d’infanzia, avrebbe potuto chiudere un occhio. Telefonò a Leonardo e prenotò una camera. Risolto.
S’era fatta ora di cena. Evelyn e Antonio pensarono che dopo quell’aperitivo rinforzato al Plasma una pizza sarebbe andata più che bene. Il cameriere propose ai due di sedersi accanto ad una giovane coppia perché – essendo sabato - l’attesa si sarebbe prolungata. La cena trascorse allegramente. Col passare delle ore si era creata una certa intimità tra i due che si guardavano dritti negli occhi come due fidanzatini. Antonio si era lasciato andare un po’ di più e – in un paio di occasioni – aveva preso la mano di Evelyn tra le sue. Anche lei poi gli poggiò una mano su una coscia. Sembrava che fossero insieme da anni.... I ragazzi vicino a loro furono incuriositi da quella coppia così “innamorata” da quegli sguardi languidi. Il ragazzo, che probabilmente non aveva più di venticinque anni, con una scusa cercò di attaccare discorso. «Dal vostro accento mi pare che neppure voi siate di Bologna. Di dove siete? »
Antonio ed Evelyn si raccontarono. I due ragazzi erano calabresi, ma avevano entrambi frequentato l’università a Bologna. Lui adesso lavorava a Milano, lei aveva trovato un impiego in un’azienda di consulenza a Bologna. «... ma calabresi di dove?» - chiese Antonio. «Soverato, un cittadina balneare sullo Ionio» - risposero, quasi all’unisono, i due. Per un attimo Antonio si sentì tremare la terra sotto i piedi. Era la città di Elena. Il destino sembrava beffarsi del suo dolore. Un brivido gli percorse la schiena. Si sforzò di non mostrare quel turbamento, ma lo sguardo, improvvisamente velato, tradì quell’emozione. «Conosco Soverato – disse – ci sono stato spesso, anche di recente. Ho degli amici lì.» Non volle aggiungere altro. Si sentì stringere forte la mano. Evelyn, senza neppure sapere perché, si era fatta più vicino.
La ragazza di Soverato chiese allora ad Evelyn da quanto tempo stessero insieme. Fu comprensibilmente scioccata quanto conobbe tutta la storia e seppe da Evelyn che con Antonio si conoscevano telefonicamente da poco più di 24 ore e che si erano visti alla stazione quattro ore prima.
Evelyn, per essere più credibile, le mostrò il cellulare, dalla rubrica selezionò il nome di Marcelo e fece partire la telefonata. Dopo pochi istanti il telefono di Antonio cominciò a squillare.
«Visto? – disse – è quello che mi è capitato ieri sul treno. Ho chiamato il numero del mio amico ed ha risposto Antonio.»
Al di là della loro storia e di come questa lasciò il segno nei fidanzati di Soverato, era sconvolgente che Evelyn e Antonio fossero molto più coppia di quanto lo fossero i loro due giovani commensali. Sembrava una coppia più fresca e affiatata. La coppia di Soverato era invece stantia, vecchia, triste, priva di passione, «tutto si direbbe, tranne che siano poco più che ventenni» - commentò Evelyn.
Terminata la cena Antonio ed Evelyn tornarono alla macchina. Li aspettava un oretta di viaggio per raggiungere l’agriturismo di Leonardo. Non appena toccò il sedile Evelyn cadde addormentata, sembrava che non dormisse da giorni. Era meglio che si riposasse durante il tragitto. Pensò Antonio. Durante il tragitto Antonio non potè fare a meno di ripensare a tutto quanto. La telefonata fatta da Evelyn ad un amico con lo stesso numero del proprio cellulare (quel numero che lui aveva da almeno 7 anni). E a chi? A Marcelo Mastroianni che, fatta salva la doppia l del nome di battesimo, era anche un amico palermitano di Elena [coincidenza piuttosto bizzarra: ma possibile tutte le famiglie Mastroianni abbiano l’acume di battezzare i loro figlioletti Marcello in onore del divo felliniano de “La dolce vita”?…]. E ancora la coppia di Soverato in pizzeria a Bologna (quanti abitanti fa Soverato 10.000-20.000? In un paese di 56 milioni). E poi la questione della registrazione in albergo. Possibile? Una macchinazione? Elena lo stava controllando? E perché? Si erano ormai lasciati? La responsabilità di quella fine così tumultuosa della loro storia era sua. A che scopo quindi quel controllo? Forse allora era tutto autentico. … ma possibile che una ragazza di ventisei anni fosse adesso addormentata nella sua macchina se fino a poche ore prima neppure sapeva della sua esistenza? Una ragazza “normale” non avrebbe dovuto essere più cauta? Al giorno d’oggi non sai mai cosa ti può capitare. Doveva calmarsi. Doveva viversi quello che gli stava accadendo con serenità, senza paure, senza farsi troppe domande. Così.
Giunti in camera. Evelyn chiese ad Antonio qualcosa per dormire. Aveva lasciato tutto nella valigia in macchina. Antonio tirò fuori dal proprio bagaglio una vecchissima tuta blu con la scritta “USA” sulla maglia. Con quella avrebbe voluto fare jogging a Firenze se tutta quella follia non fosse avvenuta, se l’indovino non avesse mutato il corso delle cose. Riflettendoci pensò che la vita fosse come il letto di un fiume con gli argini più o meno delineati, ma che talvolta l’acqua impetuosa potesse cambiare il corso del fiume se, lungo il letto già scavato, trova degli ostacoli che non riesce a trascinare con sé. Ed è proprio ciò che era avvenuto la sera precedente.
Evelyn, arrossi, gli chiese di voltarsi, e si tolse i vestiti. Come era possibile, penso Antonio, che una spogliarellista, abbia questa forma di pudore? Che non volesse cambiarsi davanti a lui? Non seppe resistere alla curiosità, glielo chiese.
Lei rispose che spogliarsi davanti ad un pubblico era diverso, in quel momento uno indossa una maschera e con quella addosso si potrebbe fare di tutto. Un po’ come recitare: «Impersonare un personaggio non significa diventare un’altra» - disse. Forse era tutto ancora più complesso, pensò Antonio, ogni giorno ciascuno indossa una maschera prima di uscire di casa e tuffarsi in quella che gli psicologi definiscono la “vita reale”, ma che è proprio il suo contrario. Quella faccia conservata in un vaso vicino alla porta. Il riferimento era a Eleonor Rigby, la canzone dei Beatles che adesso gli suonava in testa. Pensò che Evelyn insieme ai vestiti si fosse tolta quella maschera. Ora la spogliarellista part-time non ostentava la sua nudità, ma la scritta USA in bianco su un morbido sfondo blu.
Antonio pensò nuovamente a tutte quelle storie che Evelyn aveva raccontato, a tutti quei lavori poco raccomandabili, a quei 26 anni consumati in fretta. Poi la guardò. Guardò la sua pelle: così liscia e compatta che quasi ci potevi pattinare, gli occhi neri, lo sguardo da ragazzina e le disse:
«Ciò che sei mi distoglie da ciò che mi dici.
Lanci parole veloci inghirlandate di risa
e mi inviti ad andare dove mi vorrebbero condurre.
Non ti do retta, non le seguo.
Sto guardando le labbra da dove sono nate».
Era una poesia di Pedro Salinas e descriveva perfettamente il suo stato d’animo: gli premeva chi lei fosse e non quanto gli avesse detto. Fecero l’amore, ma non fu il sesso su cui Antonio aveva fantasticato il pomeriggio precedente quando era partito alla volta di Bologna per incontrare “Evelyn la spogliarellista”. Erano entrambi stanchi, con la testa annebbiata dai fumi dell’alcool. Non ci fu passione. Fu soprattutto tenerezza. Una nottata senza sonno fatta di baci, carezze e ... in questo preciso ordine.
Antonio aveva Elena ancora dentro di sé, ma, per incanto, in quell’istante con Evelyn accadde qualcosa: le loro labbra si baciarono senza dover chieder perdono a nulla, a nessuno. E non importava più chi davvero Evelyn fosse, chi fosse stata, chi o che cosa l’avesse portata lì, da lui, quel giorno. Antonio non voleva volgere il capo e guardare altrove, lontano. La vita era lì, in quel preciso istante. Il 28 ottobre 2007 ciò che importava era che loro fossero insieme in quel agriturismo sull’Appennino tosco-emiliano. Tutto il resto? ... Non c’era nessun resto!
Antonio non volle addormentarsi. Il sole indifferente dell’alba avrebbe squarciato la notte e portato via, insieme a questa, Evelyn: il sogno. Voleva prolungare quel momento. Godere di ogni residuo minuto di oscurità.
Il mattino seguente. L’incantesimo era rotto. Presero la macchina e tornarono a Bologna. Evelyn era nervosa e voleva raggiungere rapidamente la stazione e far ritorno a casa. Antonio era ripiombato in quella lucida diffidenza tipicamente fiorentina e adesso si domandava se davvero quello che era capitato il giorno prima fosse un caso o fosse tutto architettato. «Possibile?» si domandò. «Se mi è successo deve essere possibile» si rispose.
Accompagnò Evelyn al binario. C’era nervosismo nell’aria. Nessuno dei due sapeva cosa dire. «Ciao Evelyn. Fa buon viaggio e sta bene» Disse lui. «E’ stata una bella avventura, ciao Antonio» - rispose Evelyn. Non ci fu nessun arrivederci.
Partito il treno, Antonio tornò sui suoi passi lungo il binario 11.
Ritornò mentalmente a tutta la serata precedente. A volte il tempo ha un fluire differente - pensò. Quelle quattordici ore trascorse insieme ad Evelyn erano state intense come quattordici giorni anche se tutto era terminato in quattordici secondi. Si sentì più sereno. Per un istante si fermo lungo il marciapiede del binario. Chiuse gli occhi e respirò profondamente l’aria fredda del mattino. Il futuro avrebbe avuto ancora qualcosa da riservargli? Sì, Evelyn non era che un presagio. La vita gli avrebbe regalato nuovi colori, sapori e odori. Lei era venuta da lui per dirgli questo, ne fu improvvisamente certo. Riaprì gli occhi e si diresse, a passo svelto, verso la biglietteria della stazione. Era il momento di prendere un nuovo treno.
1 commento:
Le parole hanno un senso, sono una terapia e un sollievo.
Il caso esiste, basta solo leggere le coincidenze e ascoltare i consigli dell'indovino.Forse solo capire che le chiavi di lettura del mondo possono essere varie. Bisogna avere occhi e cuore aperto, anche quando le ferite sono profonde. Mai smettere di osservare, perchè la meraviglia sta nella capacità di ricominciare. Sempre. E ho la sensazione che tu possa farlo.
Queste sono le prime 14 ore.
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