lunedì 31 marzo 2008

Something

Le abitudini sono come un caro amico d’infanzia, magari non hai più nulla in comune con lui o lei, però è parte della tua vita. E’ una presenza rassicurante, esattamente come i gesti rituali, vezzi che fanno compagnia.
Leggere l’oroscopo la mattina era uno di questi. Quello di oggi le diceva: “Insisti fino a sfinire chi ti ascolta, insegui chi fugge, inchioda chi cerca di divincolarsi. Forse dovrai soffocare qualcosa che percepisci come importante affinché possano restare intatte, stabili e ben solide le fondamenta della tua vita. Non è il caso di rammaricarsene:”
Intrigante, certo non riusciva a pensare a cosa soffocare e perché .
Però aveva un presentimento, come un soffio, un sussurro lontanissimo che non riusciva a identificare.
Nonostante i problemi, i frequenti litigi e le incomprensioni caratteriali Anna lo amava. Non poteva immaginare la sua vita senza di lui, e per questo aveva più volte accettato compromessi e mandato giù rospi grossissimi. Si era fatta piacere la famiglia di Emanuele sebbene con quel mondo e quella mentalità piccolo borghese, per di più di una cittadina di provincia, sentisse di avere poco a che fare.
Avvocato in uno studio internazionale americano, con filiali nei cinque continenti, aveva fatto molte rinunce per raggiungere quel traguardo. Anni di studi e di master all’estero. Adesso però era stufa di sgobbare ventiquattro per sette, come si dice oggi. Ventiquattro ore di lavoro per sette giorni la settimana. Adesso che aveva ottenuto la stima professionale del suo capo, le soddisfazioni economiche, aveva rallentato, sentiva giunto il momento della famiglia, della stabilità emotiva e da quasi un anno le si era affacciato il desiderio di avere un figlio. Con Emanuele con cui, conviveva da due anni e mezzo ci stavano provando. Lui non sembrava troppo convinto. Ma almeno si diceva pronto ad affrontare una paternità e poi … Poi Anna aveva trentotto anni. Non aveva più tempo a disposizione. Tic-tac, tic-tac, le lancette dell’orologio biologico stavano arrivando a fine corsa.
Avrebbero avuto un bambino e tutti i loro problemi, i litigi, le incomprensioni sarebbero svanite. Ne era convinta. Avrebbero lasciato cadere sul terreno polveroso quegli stendardi bianco e nero che ognuno dei due cercava di piantare nel territorio avversario in quella incessante lotta al potere in cui si fronteggiavano sin dal primo giorno della loro storia. Guerra e tentativo di prevaricazione, ma anche passione travolgente. Uno strano legame il loro. Eros e Thanatos. Nessuno dei loro amici lo aveva compreso. Ma c’era qualcosa che li univa. Loro due: uno strano innesto tra un cactus e una rosa che, per qualche motivo, crescevano l’uno dentro l’altra anche se in modo diverso. Con velocità diverse. Con vita propria. L’una aveva bisogno di acqua, irrorazioni e cure, l’altro praticamente di essere lasciato al sole senza l’intervento del giardiniere. Ma entrambi aveva spine corte, coriacee e aguzze, con le quali si avvolgevano, tenendosi allo stesso tempo a debita distanza.
Emanuele era strano ultimamente, non era mai stato un fidanzato presente, ma adesso era costantemente distratto, totalmente assorbito dal suo lavoro nel campo del marketing. Anna si sentiva sola.
Talvolta si sentiva sola e abbandonata pur dormendogli accanto. Doveva parlargli, avrebbe presto trovato l’occasione per farlo. Magari durante il fine settimana. Quel chiarimento era necessario, lei non sopportava più il fatto che Emanuele decidesse spesso di trascorrere il tempo libero con gli amici, al club, facendo straordinari non retribuiti. Rispondendo costantemente al telefono ai suoi colleghi di lavoro alle ore più strane. Il sabato, la domenica, il venticinque aprile o il due di giugno alle 22.00. Avevano spesso litigato sul punto. Quell’atteggiamento non era giustificato, specie nel caso di Emanuele che era pur sempre un lavoratore dipendente e non un libero professionista che sta cercando di realizzarsi. Se il figlio lo volevano fare poi, avrebbero dovuto prendersi il tempo necessario per provarci. Invece lui la sera era stanco. Anna si lamentava spesso e sfogava la sue frustrazioni con Stefania. Amica di vecchia data, una di quelle donne fragili, sempre alla ricerca di qualcosa. La conosceva da anni, quando erano giovani passavano le vacanze insieme, lei si era sposata giovane ed era andata a vivere in un’altra città. Aveva divorziato ed era ritornata a casa. Perché diceva lei da qui traeva energia. Aveva trovato un nuovo compagno, più giovane, molto carino, ma anche con lui era finita. Ora era nella classica fase di quasi mezza età, in cerca di uno scopo, pronta ad abbandonarsi tra le braccia di qualcuno che fosse disposto a proteggerla. Lei era l’opposto di Anna, però le era simpatica. Ammirava in lei tutto quello che non era e non sarebbe riuscita ad essere.
Emanuele aveva approfittato del weekend per tagliarsi i capelli. Poi avrebbe trascorso, come di consueto, tutto il pomeriggio al circolo a giocare a tennis. Anna si era concessa una piacevole incursione in libreria e poi il pranzo con Stefania.
L’invito di oggi era l’occasione ufficiale per farle vedere l’ultimo regalo che si era concessa: un paio di tette nuove. In perfetto stile Stefania, maniaca della chirurgia estetica, del botulino e di tutto quello che possa restituirle anche solo per un istante l’illusione della perenne giovinezza. Una decisione che trovava assurda, Anna aveva sempre pensato che il seno dell’amica fosse proporzionato al suo fisico longilineo. E poi Stefania aveva un modo di camminare assolutamente sexy, perché ricorrere al bisturi? Come cantava John Lennon: “Something in the way she moves …, (e NON “something in her lovely boobs”) attracts me like no other lover” .
Pensare che Anna stava quasi imparando a vedere il suo seno perdere tono, che cominciava a trovare sexy le sue rughe, come se fossero un traguardo e cancellarle avrebbe voluto dire annullare la maratona che le sembrava d’aver corso.
Si alzò, s’infilò sotto la doccia, trucco, jeans, una camicia leggera, una giacca maschile, orecchini antichi, scarpe con il tacco. Il suo solito look, a metà tra il maschiaccio e la femminilità da svelare. Capelli sciolti e ribelli come sempre.
La stessa di sempre, l’ultima immagine allo specchio la indusse a chiedersi: “ Ti rifarai anche tu prima o poi?” Il primo pensiero fu “ Mai dire mai”, una delle frasi che meglio descrivevano il suo carattere, come a dire che essere rigidi non porta da nessuna parte e che “ i giunchi si flettono e le querce si spezzano quando il fiume straripa”.
Arrivò al ristorante in orario, Stefania era già lì. Bionda, abbastanza alta, con quel viso da bambina, sempre incerta, bisognosa di conferme. Indossava una camicia di seta color crema, pantaloni marroni, orecchini di perle. La scollatura metteva in risalto il suo nuovo decolletè. Il tavolo non era ancora pronto e si avvicinarono al banco per l’aperitivo. Tra le chiacchiere e i convenevoli, sentì un istinto immediato. Chiese a Stefania: “Mi fai vedere allora il risultato finale?” Non avrebbe potuto renderla più felice. Sembrava una bambina orgogliosa della bambola a lungo desiderata. Entrarono in bagno, lei teneva ancora in mano il suo bicchiere di prosecco. Stefania si tolse la camicia. Eccole le sue tette perfette, rotonde, abbondanti, sode e dure, pronte a sfidare qualsiasi forza di gravità. Irreali, però. Infatti quello fu il primo aggettivo che le venne in mente. Ma mentre finiva di pronunziarlo nel silenzio della sua testa, un dettaglio paralizzò i suoi pensieri. Su quelle rotondità finte e floride, c’erano dei residui di peli, anzi le tracce di capelli appena tagliati. Come quando vai dal parrucchiere e dei capelli ti rimangono sui vestiti e sul collo.
Lei conosceva quel colore, erano quelli di Emanuele. Non aveva alcun dubbio. Non riuscì a dire nulla, rimase in silenzio davanti a tette artificiali, senza riuscire a formulare una parola. Per interminabili secondi cercò la sua lucidità, cerco di capire cosa avrebbe dovuto fare o dire.
Tradimento: era l’unico vocabolo che le veniva. Non aveva dubbi, né incertezze, era sicura e ora riuscì anche ad ascoltare quel sussurro lontano. Il presentimento della mattina. Nel silenzio, mentre Stefania le chiedeva se stesse bene, l’unico pensiero fu l’oroscopo. “Soffocare qualcosa che percepisci come importante affinché possano restare intatte, stabili e ben solide le fondamenta della tua vita. Non è il caso di rammaricarsene”.
Non le avrebbe dato mai soddisfazione, non davanti a quelle inutili protesi di silicone, violazione di una femminilità che dovrebbe essere naturale e vera.
Avrebbe affrontato il loro incontro come un pranzo tra amiche, consapevole di trovarsi accanto invece una sleale nemica. Non le avrebbe dato vantaggi e soddisfazioni. Decise che sarebbe stata un uomo. Con la determinazione e la lucida vendetta.
Avrebbe inchiodato Emanuele, ma con astuzia. Non con la sua immediata verità.
Perché non era il caso di rammaricarsene. Soffocare perché tutto possa rimanere intatto.
Ma solo perché sapeva, senza un motivo, un perché, solo con la certezza del suo istinto, che Stefania sarebbe passata con il suo silicone e la sua vita senza fondamenta, mentre lei avrebbe vinto. Reagendo, sentendosi ferita, colpevolizzando, perdonando ma riprendendosi con coraggio e intelligenza tutto quello che era suo.
E non avrebbe mai dato soddisfazione a quella donna che dinanzi a lei si mostrava nuda, con il trofeo della sua disfatta plasticamente tendente all’alto.
Un sorrisetto malizioso le affiorò sul viso e riuscì solo a dire: “Non è il caso di rammaricarti se non è venuto esattamente come pensavi. In fondo non sono queste a reggere le fondamenta della tua vita”.
Mentre finiva di pronunciarle le venne in mente una citazione dal film Nikita di Luc Besson, dove Jeanne Moreau dice a Anne Pariaullad “ Ci sono due cose che non hanno limiti: la femminilità e il potere di abusarne”.
Lei le avrebbe usate tutte e due, con il suo 100% di essenza naturale, senza aggiunte di plastica.


Carrie B e Goldmund

Nessun commento:

Free Profile Map from ModMyProfile.com